martedì 10 giugno 2014

Una Nota Di Colore #8: Playing My Game, Lene Marlin

Musica è arte, musica è vita, musica è colore.

La musica può essere il filo invisibile che lega le persone, che consente loro di scoprire e di scoprirsi.
Può essere confronto, accordo e disaccordo.

La musica è storia ma anche moda, insegnamento e intrattenimento.

"Musica" è la parola chiave di questa nuova collaborazione, che vede, di nuovo, affiancato MikiInThePinkLand a LA is My Dream.


"Una nota di colore" è il nostro modo di raccontarvi qualcosa di noi, un modo per conoscerci e per farci conoscere. Una sorta di "get ready with me" che tanto va in voga su YouTube, con la differenza che il risultato finale è dettato unicamente dalla musica.

In questi dodici appuntamenti mensili, vogliamo fare un viaggio alla scoperta dei nostri album preferiti, raccontarveli, condividere con voi il ruolo che essi hanno o hanno avuto nella nostra vita e, ad ogni album, abbineremo un trucco e vi mostreremo i prodotti utilizzati.

Spero che l'idea vi piaccia come è piaciuta a noi, che la coltiviamo ed elaboriamo da oltre un anno.

Ogni secondo lunedì del mese, quindi, vi aspettiamo qui a cantare e truccarvi con noi!

E si ritorna, puntuali stavolta (in realtà per me con un giorno di ritardo -__-"), con il nostro appuntamento truccomusicale, ed il post di oggi è per me un tuffo nei ricordi, probabilmente più degli altri.

Quando MTV era un canale di musica - bei tempi quelli - condizionava irreparabilmente i miei gusti, e la mia playlist comprendeva tutte le hit del momento. Vi assicuro che, se penso ad alcune di quelle canzoni adesso, rabbrividisco. Altre invece, non solo furono la colonna sonora dei miei diciassette anni, ma hanno continuato a fare da sottofondo in molti momenti della mia vita.


Era il 1999, in casa mia era appena entrato un impianto stereo serio ed io riuscii in poco tempo - trafugando qualche lira qua e là ;) - a mettere da parte TRENTAMILALIRE (!!!) per comprare il mio primo CD. Non riuscirei mai a descrivere la felicità che provai quando, finalmente, fu mio.


Ancora oggi, quando lo guardo, lo sento come un piccolo tesoro, lo conservo gelosamente e lo ascolto volentieri di tanto in tanto.

Ho voluto includere Playing My Game in Una Nota Di Colore perché l'ascolto delle dieci tracce di quest'album ha suscitato e suscita ancora oggi in me fortissime emozioni, cullandomi dolcemente soprattutto in quei frequenti momenti di tristezza.

Probabilmente molti di voi, o almeno quelli della mia età, ricorderanno perfettamente Unforgivable Sinner, che adoro, ma che non è sicuramente, come spesso succede, la canzone maggiormente degna di nota di questo primo CD della cantautrice norvegese.

Ora forse con l'arrivo del caldo e del bel tempo, non è l'ideale, ma immaginate una fredda giornata d'inverno, il fuoco nel camino, una tazza di tè. Immaginatevi raggomitolati in una coperta calda, sul divano, vicino al fuoco. Fuori la pioggia scroscia , battendo sui vetri delle finestre, in un sottofondo cupo ma rassicurante. Questo non è solo ciò che mi viene in mente quando sento l'album, ma è anche lo scenario perfetto per godere di queste dieci piccole poesie, perché per me tali sono.

Sitting Down Here è, nel ritmo, la traccia meno triste. Si apre con la cristallina e bellissima voce di Lene e prosegue con una chitarra acustica piacevole e orecchiabile. L'inizio è lento, ma il ritornello è incalzante e ottimista.


Playing My Game, che dà il titolo all'album, è un dolce sussurro che prepara quasi alla successiva, travolgente Unforgivable Sinner. Di questa canzone mi piace tutto, dalla voce ai riff di chitarra. Il ritmo è coinvolgente, il testo cupo e seducente ed il risultato è un qualcosa di così ben riuscito che si spiega facilmente come mai la canzone sia balzata in pochissimo tempo in cima alle classifiche.

Flown Away è una delle prime canzoni sulle quali ho pianto, scossa dalle emozioni che mi suscitava. E' una dolcissima ninna nanna che trasporta in una dimensione onirica fatta di luce. Non so se l'intenzione di Lene Marlin fosse quella di parlare di morte o se ciò che descrive sia quell'attimo di smarrimento prima di prendere una decisione importante, sta di fatto che il testo si presta a diverse interpretazione, con alcuni passaggi che mi sono rimasti nel cuore:

The present like I never seen it before
Is this the right place to stay
Please my wings fly me away...

Su The Way We Are e So I See  non spendo molte parole, sono le tracce che mi piacciono meno, sia musicalmente che a livello di sensazioni che mi hanno suscitato. Le ho ascoltate pochissime volte.

Where I'm Headed è il terzo e ultimo singolo estratto dall'album e, non appena l'ho ascoltata, me ne sono innamorata. Molto bello anche il video, che racchiude alcune scene del film Les Mauvaises Fréquentations


One Year Ago è tristissima. Parla di una separazione e del dolore che ti lacera dentro. Il ritmo, le parole il ritornello sono come i pensieri che vorticano nella testa, i ricordi, i vari "e se" ed i "ma"

And she wishes today was one year ago
when you cared so much for her and loved her so
not a doubt in her mind that it would still be you
cause the love that you shared... it was true.

A Place Nearby è la canzone più malinconica dell'album, che racchiude i sentimenti che si provano quando una persona cara scompare, pensando a lei in un posto vicino. Trattenere una lacrima è quasi impossibile.

Per ultima ho lasciato quello che io considero il capolavoro di playing My Game, Maybe I'll Go





You think you've made it everything is going so fine

But then appears someone who wanna

Tear you down
Wanna rip you off those few nice things you've found
When and if you hit the ground.
Then it's falling kinda hard
Cause all you do is being yourself
Trying everything to succeed somehow.
But that's not the way things are right now.
Feeling kinda lost.


Triste, cupa, profonda, è incredibile quanto io senta così mie le parole di questa canzone


Ed è proprio a lei che mi sono ispirata per la realizzazione del trucco di oggi, oltre che all'atmosfera generale dell'album.

I prodotti utilizzati sono:

Per la base/viso:

- MAC Studio Fix Fluid NW 20
- L'Oréal Accord Parfait n°2, Vanilla
- Elf Mineral Booster
- Neve Cosmetics Blush Urban Fairy
- MAC Brow Set in Show-Off
- Rimmel Vinyl Gloss n°117, Mischief




Per gli occhi:

- Kiko LongLasting Stick Eyeshadow n°18, come base su tutta la palpebra mobile
- Matita color carne di Madina sotto l'arcata sopraccigliare









Dalla palette Mariposa di Urban Decay:
- Gunmetal su tutta la palpebra mobile
- Mushroom nella piega
- Haight nell'angolo interno, sfumato leggermente su Mushroom e lungo la rima cigliare inferiore
- Skimp sotto l'arcata sopraccigliare


- Kiko Glossy Eye Pencil n°500, sfumata lungo la rima cigliare superiore e inferiore
- Urban decay 24/7 Glide-On Eye Pencil in Radium nella rima interna inferiore
- Kiko Matita Occhi n° 716 nella rima interna superiore
- Chanel Mascara Le Volume

E questo è il risultato:






Con il flash






So che nel complesso, Playing My game possa sembrare un album eccessivamente malinconico, triste e monotono, ma trovo che sia comunque un buon lavoro e che valga la pena ascoltarlo.

Questo è il trucco di Patty, che potete vedere nel dettaglio QUI:


Spero che anche questo mese, l'articolo, il trucco e l'album vi siano piaciuti, alla prossima

Miki&Patty







martedì 3 giugno 2014

Ritratto di Signora #33: La ragazza afghana

Buon pomeriggio a tutti, con un giorno di ritardo, eccoci con un altro articolo della rubrica Ritratto di Signora, che abbiamo preferito rimandare ad oggi visto che ieri era la festa di un'altra amatissima Signora: la nostra Repubblica Italiana.



La parola spetta a Monica, del blog BooksLand, che ci trascina attraverso immagini e parole in un viaggio davvero emozionante.
Buona lettura!

Come ormai avrete capito, voi che mi seguite da un po’ di tempo, la fotografia è una delle mie passioni.
Poter fermare un momento in un frammento fotografico è qualcosa di veramente unico, lascia un’impronta e permette a noi stessi di ricordare cose del passato, momenti belli o brutti che siano.
Ci sono poi immagini che rimangono scolpite nella mente delle persone, fotografie famose in tutto il mondo ed è proprio qui che inizia questa storia.

Era una splendida mattina assolata, e mentre aspettavo che la mia dolce metà finisse di far colazione mi ritrovai a sfogliare un libro di fotografia.

A dire la verità era stata la copertina del libro ad attirare la mia attenzione, d’altra parte con un viso del genere era praticamente impossibile non rimanere folgorati.


Da quel giorno, sperduti in un ranch Canadese, in cui stavamo passando la nostra Luna di Miele, la mia passione (o ossessione chiamatela come volete) per questa immagine è cresciuta a dismisura.

Più guardavo la foto, più mi chiedevo chi fosse quella giovane ragazza. I suoi occhi fieri sembravano sfidarmi, e mi chiedevo quale fosse la sua vera storia.
Le poche parole che accompagnavano la foto (scattata dal gradissimo fotografo del National Geographic, Steve McCurry) parlavano di lei come una giovane profuga Afghana.
Il fotografo l’aveva incontrata, nel 1984, in un campo profughi a Nasir Bagh in Pakistan, vicino alla città di Peshawar; campo che ospitava i rifugiati fuggiti dall'Afghanistan occupato dai sovietici.

Al momento dello scatto la ragazza doveva avere circa dodici anni, era orfana ed era riuscita a raggiungere il campo con la nonna e i fratelli.
Poche righe che non rendevano giustizia a quel viso. Inutile dire che volevo saperne di più.

Il bello di questa storia, è che tutto il mondo era rimasto folgorato da quell’immagine. Quando uscì per la prima volta (nel 1985) sulla copertina del National Geographic tutti si chiesero chi fosse veramente quella ragazza, e soprattutto cosa ne fosse stato di lei.

In un paese perennemente in conflitto quante possibilità c’erano di riuscire a ritrovarla e scoprire di più sulla sua storia?

Nel 2002, esattamente un anno dopo il mio viaggio di nozze, Steve McCurry e il National Geographic decisero di intraprendere una nuova spedizione per ritrovare “la ragazza Afghana”.

Non era un periodo facile, non lo è tutt’ora per quei luoghi. La ferita lasciata dagli eventi dell’Undici Settembre era troppo fresca e il mondo guardava a quel paese come al luogo di tutti i mali del pianeta. Eppure, tra diffidenza, disperazione e guerra, una giovane donna stava per essere ritrovata.

Il giorno in cui vidi la nuova copertina del National Geographic rimasi scioccata. Avevo seguito la vicenda, ma non ero pronta a quello che avrei visto sfogliando il giornale




Mi ricordo che tornai a casa con il giornale stretto tra le mani. Era arrivato il momento di saperne di più su di lei, chi era veramente, cosa aveva fatto in tutti quegli anni? Così arrivata a casa mi accoccolai sul divano pronta a leggere l’articolo, che tanto avevo atteso.
Prima di tutto, devo dire che la redazione del National Geographic ha fatto diversi esami per essere sicura di aver trovato la persona giusta. Tra questi, l’articolo iniziale parlava di un esame dell’iride, che è un po’ come quello delle impronte digitali.. non c’erano dubbi, la donna che Steve McCurry aveva ritrovato era proprio la stessa ragazza.


Con un timore quasi reverenziale, guardai per la prima volta il viso di Sharbat Gula, quasi vent’anni dopo il primo scatto.


McCurry, e la troupe del National Geographic, erano riusciti a trovarla grazie ad un uomo che l’aveva riconosciuta. Sharbat aveva vissuto per anni nel campo profughi, insieme ai fratelli, e poi era riuscita a tornare nella sua terra di origine e viveva insieme al marito e ai figli sulle montagne


Credo che sia stato scioccante per McCurry trovarsi di fronte una donna completamente diversa da quella fotografata tanti anni prima. Per me lo è stato, tanto che inizialmente mi ero convinta che non fossero la stessa persona.


In occasione di una mostra, qualche anno dopo mi sono recata a Modena per vedere con i miei occhi quelle fotografie.


Osservando le foto a grandezza umana, alla fine mi sono convinta. La persona fotografata nel 2002 è la stessa del 1984.  Il problema vero, è ciò che questa donna ha dovuto passare negli anni.

La condizione della donna Afghana, sotto il regime talebano,  è sicuramente una delle più difficili da comprendere. Queste sono solo alcune delle restrizioni a cui vengono sottoposte:

- Completo divieto per le donne di lavorare fuori di casa, il che vale anche per insegnanti , ingegneri e la maggior parte dei professionisti. Solo alcune donne medico e infermiere hanno il permesso di lavorare in alcuni ospedali a Kabul.
- Completo divieto per le donne di attività fuori della casa se non accompagnate da un mahram (parente stretto come un padre, un fratello o un marito)
- Frustate in pubblico per le donne che non hanno le caviglie coperte.
- Lapidazione pubblica per le donne accusate di avere relazioni sessuali al di fuori del matrimonio. 
- Divieto per le donne di ridere ad alta voce.
- Divieto per le donne di indossare vestiti colorati vivaci. 
- Pittura obbligatoria di tutte le finestre cosicchè le donne non possano essere viste da fuori delle loro case.

Ne avrei tante altre da scrivere, ma credo che queste siano più che sufficienti a descrivere il mondo in cui una donna come Sharbat è cresciuta. Se a questo aggiungete un paese perennemente in guerra, è facile capire come quello sguardo fiero si sia trasformato in quello che vediamo nelle foto sopra riportate.

Non è facile per me parlare di questi argomenti, non giudico nessuno, ma al tempo stesso mi è sempre stato insegnato che in quanto persona io posso esprimere il mio parere su ogni argomento. Posso vestire come meglio mi aggrada, ho avuto la possibilità di studiare e di formare una mia personalità.


In questi ultimi anni, per fortuna, ci sono associazioni che stanno lavorando sul campo Afghano, per permettere alle donne di emanciparsi, di trovare una loro posizione e soprattutto per non dover più guardare negli occhi una donna come Sharbat e leggervi quel velo di tristezza infinita.



 



A queste donne coraggiose, va tutta la mia stima. A loro dico di non arrendersi e di continuare a credere che un futuro migliore può nascere, se lo si vuole e ci si crede.


Il mio ultimo pensiero va alla giovane Sharbat, a quella ragazzina inconsapevole che si è lasciata fotografare in un campo profughi. A lei che si è arrabbiata quando ha rivisto la sua foto per la prima volta vent’anni dopo, perché i vestiti erano sciupati, a lei che con i suoi occhi ha ispirato milioni di persone, alla donna che poteva essere e alle nuove generazioni che verranno.. spero in un futuro luminoso per tutte loro.

Monica.


Che dire? A me, leggendo, sono venuti i brividi, per la storia in sé, per la situazione in generale e perché, in questo momento, con il mio fidanzato in Afghanistan, mi sento particolarmente coinvolta.
Ringrazio Monica, per averci regalato questo piccolo pezzetto della sua vita e per averlo fatto con parole così emozionanti.
E grazie a voi che avete dedicato ancora una volta un po' del vostro tempo alla lettura della nostra rubrica, a cui teniamo davvero tanto.

Vi ricordo che assieme a BooksLand, partecipano al progetto anche

- Fede di Stasera cucino io

- Francesca di Franci lettrice sognatrice

- Daniela di Un libro per amico

Al mese prossimo,

Miki.