"Buongiorno e buon primo lunedì del mese"
No, buonasera e buon primo martedì. Abbiamo lasciato che passasse la befana per ritornare, alla grande aggiungerei io, con la rubrica Ritratto di Signora.
Dire che il ritratto di oggi apre in maniera entusiasmante questo 2014 è dire poco e per vari motivi, uno su tutti il soggetto dell'articolo: Rita Levi Montalcini, una donna che ammiro da quando ero poco più che una bambina, una donna di cui avrei voluto parlare ogni volta che mi ritrovavo di fronte alla pagina bianca per scrivere il mio ritratto, una donna che merita di essere ricordata.
Il secondo motivo è Bianca Marconero, scrittrice italiana, autrice di Albion, un romanzo che non vedo l'ora di leggere e di cui potete trovare la recensione di Monica QUI. Bianca ha gentilmente accettato l'invito a scrivere per la rubrica ed il risultato è semplicemente emozionante. Quindi, non vi trattengo oltre e vi lascio alle sue parole. Buona lettura!
" Lo so, lo so tanti giorni son passati
Però però a me sembra solo ieri
a me sembra ancora ieri"
dall'Inno del Liceo Scientifico 'M. Fanti'
Questa storia comincia qualche
anno fa. Era autunno e non solo perché lo diceva il calendario. Era l'autunno
per molte cose che eravamo abituati a considerare normali, il crepuscolo, col
senno di poi, di un'esistenza senza cellulari e senza internet. Ma poiché
quell'autunno io avevo quindici anni, ogni giorno era una primavera. Né avrebbe
potuto essere altrimenti.
Frequentavo con alterni
profitti il glorioso liceo scientifico "Manfredo Fanti", unica scuola
di Carpi che all'epoca poteva fregiarsi del titolo di liceo. L'unicità del
titolo faceva sentire un po' unici anche noi. Di certo diversi dai
"tecnici commerciali industriali". Diversissimi dai
"professionali". Per mediocri che fossimo ci sentivamo eccellenti.
Eravamo carpigiani, frequentavamo un istituto che era già un'istituzione,
avevamo T-shirt brandizzate "Liceo Fanti", e un pre-nostalgico Inno
della Scuola che ci faceva piangere, condannati a lacrime e orgoglio, per gli
anni a venire. Eravamo l'elite del provincialismo.
A questo punto vorrei potervi dire
che tra gli unici omologati io mi distinguevo per estro o ingegno. Ma mentirei.
Mi distinguevo solo perché uscivo con un ragazzo dell'istituto professionale. Si
chiamava Gianluca, giocava a pallavolo, era alto un metro e ottantasette ed era
la persona più bella che avessi mai visto.
Il nostro amore era ostacolato
da molte forze avverse, la più tenace delle quali era incarnata dalla
professoressa di latino. Ora, la domanda "perché la professoressa di
latino di un liceo (anche se l'unico della città) avrebbe dovuto immischiarsi
sulle frequentazioni di una studentessa di alterno profitto", sarebbe
legittima ma la risposta, temo, deludente.
La prof lo faceva e basta. Arrivò
al punto di chiamare a colloquio i miei genitori per informarli che io, tutte
le mattine, arrivavo a scuola, caricata sulla canna di una bici da uomo,
guidata da un ragazzo dell'istituto professionale. Non che loro ne fossero
all'oscuro, ma tant'è.
E' tempo di tornare all'autunno
da cui siamo partiti. Fu la prof di latino (sempre lei) a comunicarci solennemente
che in quanto Studenti del Fanti avremmo avuto l'onore di assistere alla lezione
di un Premio Nobel per la medicina. 'Lezione'
può sembrare ridondante e fuori luogo. Ma del tutto appropriato a una scuola in cui ti sentivi dio perché avevi
una t-shirt con scritto 'liceo', e ti sentivi Giulietta, solo perché il tuo
Romeo non studiava filosofia. E poi era l'anno del Cinquantenario della Fondazione,
cinque decenni ab urbe condita. Per
come stavamo messi a ego capirete che si preparavano festeggiamenti con fuochi
d'artificio e baccanali. Rappresentazioni teatrali. E Lezioni con Premi Nobel.
L'incontro sarebbe avvenuto
nel pomeriggio, in una sala cinematografica della città, affittata per
l'occasione. Gianluca e la sua bici mi accompagnarono. Il tragitto fu
turbolento. Già a quell'epoca avevo una marcata predisposizione a inscenare
drammi romantici e, caso voleva, che tale predisposizione fosse condivisa dal
mio ragazzo. Il risultato era che ci lasciavamo, spezzandoci il cuore, più o meno
una volta a settimana. E visto che
quella settimana ancora non era successo, fu del tutto normale che ci lasciassimo
durante il tragitto.
Quando entrai nel cinema cercai
le mie amiche per sfogarmi. Dissi che era finita e stavolta per sempre. Loro non
ne dubitarono. Tutto normale. A quindici anni si presta molto credito alle
sofferenze d'amore e si crede ai "per sempre". Anche quelli che
durano cinque minuti. Prendemmo posto in galleria, le luci si abbassarono e
arrivò lei, seguita da un drammatico occhio di bue. La prima cosa che pensai,
sprofondata nella sedia del cinema, fu che l'amore era un sentimento
straziante, la seconda fu che quella donna sul palco, il medico, doveva essere
vecchia come la morte. La terza che era asciutta, come se qualcosa, una forza o
un morbo, esigesse il suo corpo; bruciata da dentro, da non so quale fuoco. Poi
notai la voce. Il timbro aveva una vibrazione singolare, affascinante come un
naso importante in un bel viso. E lei, tutta la sua persona, aveva quel garbo
elegante, quella dignità di se stessi, che troviamo nelle foto dei nonni, da
giovani, e ci fa dire che erano bellissimi.
Quella donna anziana bruciava
e vibrava. Ed era bellissima.
Parlava dal palco del cinema, illuminata dall'occhio di bue. Sembrava un'astrazione metafisica, un simbolo. E mi venne proprio una gran voglia di capire per cosa stesse quel simbolo. Che cosa rappresentasse quella donna. Così cominciai ad ascoltarla. Ci raccontò di aver dedicato la sua intera esistenza a risolvere gli enigmi della natura. In luna di miele con gli embrioni, consacrata allo studio. E poiché a forza di interrogare la materia ci si può imbattere in risposte che proprio non ti aspettavi, finisce che trovi una risposta che ancora non era stata trovata. Quindi la risposta è una Scoperta. E se sei tenace, fortunato e supportato da una mente brillante, la Scoperta ti porta al Premio Nobel. O almeno a lei era andata così.
Parlava dal palco del cinema, illuminata dall'occhio di bue. Sembrava un'astrazione metafisica, un simbolo. E mi venne proprio una gran voglia di capire per cosa stesse quel simbolo. Che cosa rappresentasse quella donna. Così cominciai ad ascoltarla. Ci raccontò di aver dedicato la sua intera esistenza a risolvere gli enigmi della natura. In luna di miele con gli embrioni, consacrata allo studio. E poiché a forza di interrogare la materia ci si può imbattere in risposte che proprio non ti aspettavi, finisce che trovi una risposta che ancora non era stata trovata. Quindi la risposta è una Scoperta. E se sei tenace, fortunato e supportato da una mente brillante, la Scoperta ti porta al Premio Nobel. O almeno a lei era andata così.
Aldilà dei dettagli tecnici sui fattori di crescita dei nervi, che mi sfuggivano allora come ora, ciò che passava con molta chiarezza, ciò che vidi confermato anche negli anni a seguire era la lucidità con cui aveva fatto, per tutta la vita, la stessa cosa che ci esortava a fare. La cosa più importante di tutte, il fondamento di un'esistenza non sprecata.
In una parola: ricerca.
Decisi in quel momento che l'avrei
fatto anche io. Uscii dal cinema e raccontai a tutti della mia illuminazione e
della mia intenzione di fare il ricercatore. E, ora posso dirlo, quello non è stato
un per sempre da cinque minuti.
Mi diplomai al liceo, presi
una laurea di quelle 'che puoi fare tutto', e questo per nascondere il fatto
che non servono a niente. Trovai mille lavori, apparentemente lontani l'uno
dall'altro: operatore di ripresa,
sfilate 'tecniche', editoria periodica, televisione. Ma se dovessi rispondere
alla domanda 'cosa fai nella vita'? Io risponderei che faccio la ricercatrice.
Lo sono. Una parte di me ha
tenuto in serbo l'esortazione di Rita Levi Montalcini, a cercare. Che siano
cose, risposte, il bandolo di una matassa, il santo Graal, o il fattore di
crescita dei nervi; che sia una cosa che
cambia il Mondo, o che cambia solo il tuo, il più grande favore che uno possa
fare a se stesso è cercare. Per tutta la vita.
La Montalcini è venuta a
mancare un anno fa, a molti anni da quell'incontro. E ora posso dire che la sua
parabola è stata emblematica. È stato un percorso di eccellenza e tenacia; di
rigore e di affettività. Una donna con
le ali e le radici, la capacità di spiccare il volo e quella di ricordare da
dove si viene, perché è lì che si torna. Quando ho deciso di scrivere due righe
su questa grande donna italiana ho colto l'occasione per leggere il bellissimo
epistolario, "cantico di una vita" ( Raffaelo Cortina Editore, ed.
2000). Da quelle pagine scritte ovunque e destinate ai suoi cari, emerge una persona con la valigia, che rincorre
piroscafi e aerei, sballottata da un convegno all'altro, da un istituto di
ricerca all'altro, sebbene non fosse nella sua natura, in quanto era "specialmente
in viaggio di una prudenza che rasenta la vigliaccheria e di una saggezza da sbalordire"; una
donna che non si dimentica mai di scrivere ai suoi cari e di alzare il
bicchiere agli assenti il 31 dicembre alle cinque del pomeriggio, ora di St.
Louis. Scossa perennemente dalla nostalgia, perché, come scriveva: "credo
che nella solitudine e nella distanza i sensi si affinino".
Rita Levi-Montalcini cercò di
combattere la solitudine della lontananza intessendo amicizie e rapporti. Tra le
sue frequentazioni, ricercatori, assistenti, ma anche persone al di fuori
dell'ambito accademico, individui che stimava, come la signora Grey, una donna
"irreligiosa, libera da qualunque pregiudizio di casta e di razza e piena
di compassione per tutti" per la quale si prestava a recitare poesie in Italiano,
ad alta voce. La Montalcini scelse di non sposarsi e lo fece "senza
rimpianti" poiché "quando il lavoro è a una svolta ho momenti di
perfetta e piena felicità".
Amica degli Americani, curiosa
verso i cibi confezionati e l'aria condizionata. Grata, infinitamente grata, per aver ricevuto
l'opportunità, impossibile in Italia, di portare avanti le sue ricerche, poiché
funzionava allora come ora e " nei concorsi non avrei avuto nessuno a
prendere le mie parti, visto che sono indipendente". E allo stesso tempo
lucida nel giudicare le contraddizioni di quel Paese che l'aveva adottata
"dove tutto è ridotto a un formulario per evitare agli americani la fatica
di pensare".
Col progredire della carriera
aumentano le relazioni, le cene, gli inviti. E con gli amici visita mostre,
assiste a concerti di Stravinski (diretti da lui), o a piccoli ritrovi musicali
durante i quali "i colleghi, tra
cui Dulbecco suonano in trio o quartetto Vivaldi e Bach".
Nelle lettere troviamo il
mondo descritto con il filtro dai paesaggi Italiani, lenti verdi che non può togliersi. E così Long
Beach è "come il Lido di Camaiore", le montagne sull'Highway che
porta a Los Angeles "irreali come quelle cha fanno da scenario a Forte dei
Marmi" e il cielo di St. Louis "più azzurro di quello di
Sestiere" mentre la luce del Campus riporta alla mente "i baracconi
di Piazza Vittorio".
Sperimentò l'ebrezza e
l'orgoglio di essere l'unica donna in più di un'occasione. Tanto che al meeting
di Chicago del 1949 gli oratori, a inizio conferenza, salutavano con 'lady and gentlemen', a cui seguiva "un inchino all'unica lady". E questa sua unicità, di
donna che non fa la moglie e la madre, ma la ricerca, era un tratto che sentiva
di avere in comune con Paola, la sorella pittrice alla quale scriveva "quel
che conta è che tutte e due mordiamo con passione il nostro osso. E penso che
la nostra vita sia assai più interessante di quella del 99% delle donne".
Ma nell'epistolario ho
ritrovato soprattutto quell'esortazione alla ricerca, che a suo tempo tanto mi
aveva colpito. E vorrei lasciare a chi mi ha seguito fin qui alcuni stralci che
spero di aver riportato con fedeltà, nelle mie trascrizioni. Così come le mie
memorie sono state fedeli al monito di quel giorno.
Cercate. E troverete.
1948 – 'sono in armonia con me stessa e col mio prossimo e ho l'impressione di realizzare il meglio di me'
1949 – 'credo veramente sia utile, ogni tanto, fermarsi a vedere qual è la strada migliore da seguire, anziché lavorare a testa china. Senza prendere fiato'
1949 – '(sull'arte) cambiare completamente modo d'espressione, ogni cinque anni, come se un nuovo individuo si sostituisse all'antico, mi pare faccia dubitare dell'onestà degli intenti che l'artista si prefigge e dell'essenza artistica del contenuto'
1949 – 'credo che ci siano poche cose al mondo così piacevoli come far nascere delle idee e poi covarle'
1950 – '(riportando l'opinione di Andersen- direttore e genetista dell'istituto di Botanica) sprigiona da me tale energia che dovrebbero pagarmi soltanto per circolare nei corridoi dell'università'
1953 – 'quel che conta non è tanto la realtà, ma i nostri sogni e quel che noi vogliamo vedere nella realtà'
Bianca Marconero
Vi ricordo che potete trovare la rubrica, oltre che su MikiInThePinkLand, sui blog
Grazie, alla prossima.
Miki.
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